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Le voci della memoria

I

(de ioco atque condicione)

E' un gioco lo scorrere veloce della memoria; è sentimento, è passione, è paura.

E' uno scivolare lieve, lontano nel tempo.

E' rivedersi bambino in calzoncini corti, una o due taglie sempre più grandi, a rincorrere i giorni: - <<che tanto crescerai>>.

E' un gioco il ritorno.

Un gioco come quelli in cui scalzo, sulle chianche roventi in estate, nei labirinti dei vicoli imbiancati di calce accecante, rare volte fui davvero un eroe: rare volte una lepre.

Sopraffatto dalla mia timidezza fui spesso il segugio, il vice sceriffo, l'amico di Ercole, il fratello di latte di Spartaco; fui Aramis; fui i Filistei; fui il sergente Garçia ...!

Poche volte ero stato Spartaco, poche lo sceriffo invincibile, rare Sansone, quasi mai D'Artagnan e mai, dico mai una volta che io abbia potuto essere Ercole. C'era sempre, nei miei giochi, chi arrivava prima di me a dire: - <<ed io sollevo l'universo intero!>> ... Porca miseria!

Dopo che cosa avrei potuto dire? Che cosa potevo sollevare oltre?

Se mi andava bene potevo accontentarmi di "sollevare il mondo" forse un'intera "costellazzione" (con due ed a volte anche con tre zeta proprio per rendere la cosa enormemente più pesante) in casi eccezionali: il che è tutto dire...! Potevo però esserne ben lieto perché al modo di come "sollevavo" io il mondo non c'era proprio nessuno che poteva battermi.

Questi erano giochi dalle trame inventate, sognate. Erano giochi dalle trame rubate.

Erano giochi che si svolgevano nei vicoli del rione Sant'Anna che come ogni altro agglomerato del centro era ben delimitato e rarissime volte si sconfinava nei rioni limitrofi: San Cipriano e San Cosimo, la "strata longa" con "Sant'Anna nova" poiché ognuno di questi quartieri erano opportunamente presidiati da bande indigene che ne controllavano il territorio proteggendolo dalle orde di pargoli schiamazzanti, invadenti e pericolosi come sciami d'api.

Per la notevole rivalità esistente tra i rioni non era affatto consigliabile avventurarsi da soli in altre zone per le consuete escursioni, qualche volta lo facevano i ragazzi più grandi ed allora erano guai seri che cominciavano con un vivace scambio di bestemmie comprendenti il ricordo e l'elenco degli altrui defunti, ma non proprio in riguardoso raccoglimento o preghiera, fino ed oltre la settima generazione; minacce di interventi inverosimili nei confronti del fondoschiena avversario, naturalmente senza operazione chirurgica o anestesia alcuna, con strumenti indicibili che andavano ben oltre ogni fervida immaginazione; nei casi più gravi e per fortuna meno frequenti: zuffe colossali e lanci di pietre con ripetuti inviti e le promesse gridate di rivedersi al più presto, a "campi invertiti", per una gnosi migliore, un ulteriore atto di liberalità e per puro tributo alla giovialità, immagino, esteso anche alle sorelle, madri e quanto di femminile esisteva nelle di loro famiglie.

Non ho, però, mai visto arrivare o partire squadre accompagnate dalle parentele femminili per la "partita di ritorno", segno evidente che questa non avrebbe mai avuto luogo.

Se ne sarebbe riparlato alla prossima disputa e sul terreno che la sorte o, meglio, l'audacia dei ragazzi avrebbe designato.

Il nostro campo d'azione, inteso come rione, era circoscritto da: via Martiri della libertà, quale linea di confine a nord tra il rione Sant'Anna e San Cipriano; l'attuale via E. Santacesaria, piazza IV novembre (lu sitili) e Porta grande, come linea di confine a sud ovest con il rione San Cosimo, "strata longa" e Sant'Anna nuova; via Federico II Svevo, infine, delimitava il centro storico e lambiva la nostra zona dividendola ad est dal quartiere dei Domenicani (tumminicani).

Le nostre case, salvo qualche rara eccezione che comunque non riguardava il nostro ceto, erano prive di tutto; c'era sì all'interno di esse l'illuminazione elettrica ma questa era veramente indispensabile perché in quelle fatiscenti abitazioni era la porta d'ingresso l'unico accesso per ogni cosa ivi compresi l'aria, il lucore e raramente, appena per pochi minuti, il dio sole.

Erano poche le case munite di finestre e quasi tutte si trovavano ai piani superiori.

Mancava l'acqua corrente e la fogna con annessi servizi igienici; non esisteva il giardino ed i più fortunati avevano due stanze. (Un passante o visitatore, magari "Lumbard" di nome -a caso- Umberto, oggi li definirebbe "tetri e rozzi loculi meridionali").

Quelle dimore con un'unica stanza erano salotto, soggiorno, sala da pranzo, cucina e camera da letto per tutta la famiglia che, in molti casi, era composta da oltre quattro persone.

Per i quotidiani bisogni igienico corporali si usava il vaso da notte (cantero) il quale veniva svuotato alla mattina molto presto, o quando passava, in un motocarro con le insegne del Comune ed adibito a questa bisogna.

Era importante non perdere cotanto abituale appuntamento; il rischio era di convivere un'altra giornata con il non proprio gradevole effluvio di esso.

Per lavare e lavarsi si attingeva dalle vasche di rame o di coccio (lemme) che erano state preventivamente riempite dalla grande fontana pubblica, probabilmente di ghisa, contrassegnata da un'ascia con un manico troppo grosso nelle proporzioni (sembravano tanti manici tondi e lunghi legati assieme e con al centro una grande ascia) che non capivo se nella realtà si potesse usare un'accetta combinata a quel modo ed a quale uso potesse essere adibita: - <<che mio padre ne ha una con un bel manico e dalla comoda impugnatura che ci spacca la legna per il fuoco, quella sì che è una vera ascia come si vedono anche nei film degli indiani e caubboi>>.

Imparai, in seguito, che quello era insegna e strumento del potere degli antichi romani chiamato "fascio" che "qualcuno", molti anni dopo, aveva scopiazzato per contrassegnarne le fontane della povera gente o forse per ricordarci che eravamo veramente in tanti ad aver bisogno dell'amara acqua che defluiva da quei totem, spettri di un passato imperante, ed ancora tutti nelle condizioni di latente vivibilità in cui ci avevano lasciato i nostri antichi padri del mondo.

Chissà con quale simbolo si contrassegnavano le fontane della gente più ricca?

Noi bambini non eravamo molto avvezzi all'acqua per l'igiene fisica e la mancanza di essa provocava frequenti e spiacevoli attacchi di parassiti che si trasferivano rapidamente anche sulle altrui teste come un segno di mera giustizia sociale condivisa, finalmente, anche dagli altri bambini di diversa estrazione.

 

Io li ho avuti una volta poi mia madre, per la gran rabbia e la vergogna, armata di forbici mi tagliò alla buona i non lunghi capelli; ci volle molto tempo da allora per ridare alla mia povera chioma un senso definito, meglio sarebbe stato che mi avesse rapato a zero. Mi infilò la testa in una vasca colma d'acqua fino a soffocarmi e tra sberle e calci nel sedere la strofinò con spazzola e sapone verde fino a farla sanguinare, mi riempì d'insetticida in polvere e così mi liberò da quell'infausta compagnia.

 

A fronte di abitazioni siffatte era consequenziale che molte ore della giornata, per la maggior parte dell'intero anno, venissero vissute in mezzo alla strada e su di essa, in prossimità del proprio uscio, si svolgevano molteplici attività facilitate oltremodo dalla mancanza quasi assoluta di traffico automobilistico.

Girando per quelle vie, a seconda delle stagioni, si potevano vedere massaie che lavavano e stendevano il bucato; che si organizzavano "pi lu cofunu", il lavaggio straordinario (oltre a quello ordinario che si faceva invece ogni settimana o quindici giorni). Si effettuava soprattutto nel cambio di stagione e consisteva nel mettere tutto il bucato in un grosso recipiente di terracotta insieme a della cenere e soda (con un accorto processo di filtrazione) e poi portato in ebollizione fino a rendere perfettamente sterili tutti i capi di biancheria. Il liquido che ne scaturiva, la liscivia, dopo un'intera giornata di ammollo della biancheria, veniva recuperato dal foro sottostante al recipiente e riutilizzato per lavare i capi colorati ed infine veniva impiegato come detergente per sgrassare le mani al posto del sapone.

Massaie che aiutate dai figli, "scantaunu li favi". Con una lastra di pietra di Cursi appoggiata sulle gambe o su di una sedia; muniti di una pietra viva piatta, vagamente tondeggiante e non più grande del palmo di una mano, levigata dal tempo e dalle onde marine, battevano le fave che, rinsecchite al sole di luglio, venivano aperte e liberate dal loro guscio per ritornare a riprendere aria e sole, fino a quando sarebbero state richiuse in appositi sacchetti di panno grezzo a formare scorta per il frequente e comune consumo invernale.

Quelle che sedute su di un gradino, stringevano il figlio tra le gambe per non farlo scappare e pazientemente frugavano nella di lui chioma, unta e bisunta, alla ricerca di infidi pidocchi. Quando la caccia era favorevole li strizzavano prontamente tra i due pollici fino a farli schiattare con compiaciuta soddisfazione e relativo commento, a denti stretti, sulle esagerate dimensioni del nefando parassita per poi, con estrema pazienza, ripetere l'operazione tra l'insofferenza dei ricalcitranti bambini.

Vecchiette che sferruzzavano su interminabili scialli raccontando e raccontandosi incredibili storie dei loro giovani tempi. Erano storie sempre uguali, sempre le stesse; ripetute come una "Ave Maria" che tutti avevano già imparato a memoria, che nessuno più sentiva e che le medesime vecchiette ripetevano ormai rassegnate, con un tono sempre più sommesso, tanto che sembrava quasi non ascoltassero più se stesse.

Uomini che pazientemente risistemavano gli attrezzi dei loro mestieri ed a sera, seduti insieme nel chiarore delle stelle, tutti a raccontarsi di tutto.

Per i ragazzi quelle strade non avevano più segreti e dopo un po' diventavano monotone. Non c'era più niente da scoprire ed allora si dava ampio sfogo alla fantasia; s'inventavano alberi e foreste, oceani, montagne e vette inviolabili per chiunque altro mentre per noi, epici eroi d'ogni tempo, diventavano ordinarie e semplici passeggiate. Ed erano storie di lupi, orsi e streghe; di fate, principi e cavalieri; di cannoni e guerrieri armati di spade, lance e fionde: vincevamo l'invincibile.

Erano schiamazzi e grida, sudore ed affanni, diverbi ed inganni interrotti di colpo "allu fisccu ti lu tata" (al fischio di papà), amaro richiamo all'alcova domestica.

Giochi erano anche l'infinita raccolta dei tappi di rame (ramiroddi) con la caccia continua nei pressi del chiosco o della "pizzeria" quando anche per ore, si attendeva che qualche avventore consumasse una bibita qualsiasi per potersi procurare il tanto sospirato bottino il quale, una volta conquistato (e non era facile), veniva opportunamente battuto con un martello, spesso con delle pietre, meglio se una "sccantaredda", (la pietra che la mamma usava per togliere le fave secche dal guscio) al fine di ottenere un tondino piatto e perfettamente liscio facendo attenzione a non rovinare il marchio che sul rame era impresso e lo rendeva pregiato.

In quest'arte mi sentivo un vero maestro tanto che riuscivo ad ottenere dei tondini quasi perfetti con pochissimi colpi: invidia di molti.

Per questa singolare raccolta esisteva una scala di valori assoluti, la "ramirodda cu la sctella" era quella che aveva maggiore apprezzamento al cambio della particolare borsa di noi bambini, si potevano ottenere fino a dieci tappi di altre marche per una sola "stella"; in realtà non ho mai capito chi e come avesse stabilito tali quotazioni.

Un gioco che avrei voluto fare era la "sctacchia".

Consisteva nello spingere un tondino, quasi sempre un pezzo di buccia d'arancia, saltellando su di un piede solo in un tracciato disegnato col gesso. Bisognava stare molto attenti nel saltello a non fermarsi sulle linee che delimitavano le caselle contrassegnate con dei numeri, altrimenti, bisognava cominciare da capo per ripartire poi da una posizione di svantaggio.

Questo era un gioco considerato "per femminucce" e l'essere scoperti a farlo significava derisione e sfottò per un tempo indeterminato da parte di tutti i compagni di giochi.

Non l'ho mai fatto!

Poi c'erano "li truddi": gioco in cui era indispensabile saper scegliere cinque pietre non più grandi di una grossa mandorla e rigorosamente simili tra loro al fine di ottenere un maggiore bilanciamento quando queste dovevano essere lanciate e rigirate nel palmo della mano, prive di spigoli e vagamente tondeggianti. Bisognava avere una particolare agilità e rapidità nei movimenti e nel tocco se si voleva essere considerati dei buoni giocatori.

Il vero professionista del gioco "ti li truddi" aveva almeno tre serie di queste pietre di diversa dimensione che adoperava a seconda della grandezza della mano dell'avversario che si ritrovava a dover affrontare e da esse diventava inseparabile.

Ancora il gioco delle palline, le figurine, "battimurra e sottapareti".

Questi ultimi due giochi erano d'azzardo, ci volevano i soldi ed erano riservati ai ragazzi più grandi.

 

Si narra che "sottapareti" la cui traduzione letterale significa "sotto il muro" o "sotto la parete" è, secondo una antichissima leggenda, un gioco che introdussero i saraceni quando, circa nell'anno 900 d.C., invasero le nostre pianure e rasero al suolo i paesi che incontravano. Giunti che furono alle porte della nostra tranquilla comunità fu per loro molto facile invadere le strade e razziare nelle case; quando ebbero finito, forse meravigliati dalla scarsa resistenza oppostagli e felici per la conquista del paese, questi cominciarono le feste di rito ed alcuni di loro, ormai vinti dal vino e dalla stanchezza, si gettarono a sedere addossati ad una parete in un vico non molto largo e cominciarono a lanciare contro il muro opposto dapprima una serie di oggetti che la memoria della leggenda ha smarrito nel tempo e poi, via via, forse attratti da quell'inconsueto gioco, anche delle monete che, secondo l'intensità della forza ad esse conferita, si fermavano in prossimità o addirittura a ridosso dell'angolo formato dalla parete ed il bordo della strada; da lì cominciarono le prime regole tra le quali la principale (che divenne anche il reale scopo della partita) era che la moneta doveva fermarsi il più vicino possibile all'angolo costituito ma senza toccare la parete di rimbalzo; cominciarono le prime scommesse ed il gioco si diffuse.

Si racconta infine che un giovane del luogo, notando l'accanimento con il quale gli invasori erano ormai presi da questo nuovo gioco, ne divenne talmente abile che in una epica sfida di "sottapareti", non solo riuscì a riscattare la sua promessa sposa che era stata rapita da un perfido saraceno, ma si riprese anche i suoi averi e quelli di gran parte dei cittadini che erano stati vittime della razzia precedente tanto da meritarsi l'eterna gratitudine degli stessi ed il rispetto degli avversari finché questi rimasero in paese.

Allorché nel 1256 d.C. Manfredi Svevo, signore del territorio, dovendo sedare una rivolta fu costretto ad assoldare i saraceni di Lucera per radere al suolo il nostro paese questi, una volta che ebbero assolto al proprio dovere ricominciarono, nell'ozio, a ricercare momenti di impegno faceto, ad organizzare giostre e tornei ma soprattutto a riprendere piccoli giochi che consentivano vincite immediate e senza sforzi.

Quando si resero conto di essere stati superati in maestria per diversi giochi anche da abili bambini del posto decisero di modificare le regole di alcuni di essi, tra i quali "sottapareti", per cui non era più consentito lanciare la moneta sotto al muro, ma contro il muro con il proposito che questa, rimbalzando contro lo stesso, cadesse il più lontano possibile; lo scopo del gioco diventava quindi che il giocatore successivo facesse rimbalzare la propria moneta il più vicino possibile a quella del giocatore precedente; la gara continuava ad oltranza fino a quando una moneta cadeva almeno ad un palmo rispetto a quelle già in terra e ne consentiva la vincita.

Alla luce di quelle nuove regole nacque un gioco completamente nuovo che fu battezzato "battimurra" il quale, nella sua traduzione letterale, significa "batti il muro" o "batti al muro" ed il cui spirito semplice ed immutato sopravvive ancora oggi.

 

Non vi ho mai giocato, neanche nelle nostre imitazioni degli adulti (non avevo molti soldi in realtà) però mi piaceva guardare coloro i quali lo facevano, specialmente se si trattava dei più grandi perché avveniva quasi sempre che litigassero tra loro e spesso finiva a botte; dopo mezz'ora erano gli stessi che riprendevano a giocare sotto ad un altro muro con lo stesso spirito degli antichi "Mori bianchi" o "Mori cangianti" per via del loro spirito di adattabilità, sembra, quali erano definiti gli antichi abitanti del nostro Paese.